“Essere o non essere” sono certamente le parole più importanti di tutto il Teatro Occidentale e, come sanno (quasi) tutti, le dice Amleto. Subito dopo “essere o non essere” Amleto dice: “Questa è la domanda”. Come se la vita di ogni uomo, non solo di Amleto, che ogni uomo lo sappia o no, non fosse altro che porsi questa domanda.
Re Lear, invece, “nega” questa domanda e decide per il “Non essere”, non essere più Re.
Dare via il proprio “essere” (il proprio regno) è come dare via la propria ombra (come nel famoso romanzo).
Nel momento in cui Re Lear non è più Re è solo “Lear”. E che cos’è Lear se non è “più” Re? Non è che un “uomo”. Uno come tanti che non contano nulla. Non è che “nulla”.
“Sono io Lear?…” si domanderà disperato.
Travolto dalla “tempesta” del “non essere” Lear la attraverserà fino alla fine, fino all’ultimo dolore quando l’uomo Lear, portando in braccio la figlia Cordelia morta, urlando, domanderà agli spettatori in platea e nei palchi del Teatro: “Siete uomini o pietre? Avessi io le vostre gole e i vostri occhi, urlerei e piangerei fino a mandare in frantumi la volta del cielo…”.
In questo finale, colpo di genio, Shakespeare-Lear invoca le grida e il pianto di tutti gli spettatori come se fossero il Coro ideale per l’ultima scena del suo capolavoro. Le grida e il pianto “dentro” il “silenzio degli spettatori”. Un silenzio che è urlo di pianto. Forse il finale del Re Lear ci fa comprendere meglio il finale di Amleto: “Il resto è silenzio”. – Gabriele Lavia